Mi soffermerò su due dimensioni – la concezione della scuola come ‘organizzazione che apprende’ e l’approccio alla didattica come sapere significativo – che, nella loro peculiare attualità, denotano comunque una precisa possibilità di connessione con il messaggio e l’eredità di Giuseppina Pizzigoni.

Organizzazione a apprendimento

Soffermiamoci sul verbo “apprendere”, che nel linguaggio pedagogico-didattico-scolastico tradizionale era un verbo transitivo (“apprendere che cosa?”) mentre nelle scienze del comportamento, in particolare in quelle dell’organiz­zazione, diventa un verbo intransitivo: la scuola come organizzazione “che apprende”. Potremmo chiederci, allora: che cosa? perché? per chi?

È importante essere consapevoli della valenza culturale dell’espressione “learning organization”: “learning” è un verbo che ha un senso compiuto in sé, un senso che non ha l’italiano “apprendere”. Stando così le cose, che cosa c’è dietro quest’accezione dell’idea di organizzazione che apprende in quanto organizzazione e, siccome apprende, sopravvive, si sviluppa, continua, non muore, migliora la sua lettura sociale, “guadagna clienti”. Che cosa vuol dire applicare questo termine alla scuola?

Gli interrogativi possono essere molti: con quali livelli di complessità umanistica e pedagogica è compatibile questo modo di vedere la scuola, e con quali lo è invece di meno? In altre parole, è possibile che una concezione della scuola come organizzazione che apprende sia solo un riduttore di complessità, cioè una di quelle teorie o ipotesi ad hoc introdotte non per risolvere, ma per mascherare, i veri problemi? Si possono aggiungere altri interrogativi: qual è il livello di complessità e di saturazione della mission scolastica o, in altre parole, qual è la teoria della scuola implicita in questo tipo di processi innovativi di carattere controllabile e razionale, cioè assoggettabili a un trattamento analitico di visibilità?

Nella cultura pedagogica italiana c’è stato un momento in cui si è negato che la scuola potesse essere considerata un’ organizzazione e che i suoi complessi problemi, anche sotto il profilo culturale, potessero essere affrontati facendo riferimento a un modello sistemico: la scuola era assolutamente altro (incontro spirituale) da quello che s’intende per organizzazione (affare industriale). Chiunque apra un libro di Lombardo Radice percepisce l’idea della scuola come vita, della scuola come evento, della scuola come emozione, della scuola come complessità immateriale. Se si chiudono gli occhi e si ripensa a quel contesto ci si può chiedere: “Ma l’organizzazione che cos’ha che fare con queste immagini?”. La risposta non può essere che questa: la scuola è comprensibile “solo” come compresenza di un insegnante e di una classe. La cultura italiana, riguardo alla scuola, non ha prodotto paradigmi autoriflessivi: l’unico modello disponibile è di matrice fondamentalmente estetica, l’arte di fare scuola. Il resto è soprattutto ideologia politica.

Giuseppina Pizzigoni, con la sua invenzione scolastica, si è collocata completamentee fuori e oltre questa visione, fino a superare i confini di una completa e compiuta modernità.

Oggi ci cimentiamo col management, tentiamo con gli approcci produttivi razionali e vi facciamo rientrare tutto quanto possiamo dire e volere a proposito della scuola. Dovremmo chiederci, però, se anche il nostro, come tutti i paradigmi, possiede o meno un valore di copertura relativo. Il rischio è di riportare a questo unico paradigma la totalità dei casi considerabili.. In altre parole ancora, il rischio è che l’organizzazione che apprende sia un concetto utilizzabile, sì, ma solo se si parla di organizzazione.

Abbiamo visto che se l’’apprendere’ è una categoria riferibile all’ambiente umano, che è biologico e non meccanico, si pone la necessità di circoscrivere la classe di riferimento di tale categoria. Come si giustifica dunque quest’idea della scuola come organizzazione che apprende, quali sono le sue basi metodologiche, le sue tecnologie, i suoi vantaggi?

Nei confronti della scuola possiamo individuare tre approcci: uno di tipo minimalista, uno di tipo massimalista e uno di tipo tradizionalista. Credo che la teoria della scuola come organizzazione che apprende dovrebbe essere confrontata con queste tre possibili accezioni.

Se l’ipotesi di scuola come organizzazione che apprende è fondata sulla teoria dell’organizzazione, è inevitabile il rischio di considerarla al traino dell’economia, in una prospettiva iperfunzionalistica. Quest’ipotesi comporta peraltro un recupero del riferimento all’attivismo attraverso la sua riconduzione a una razionalità descrivibile e non soltanto a una posizione estetizzante.

Rimane il punto di domanda sul perché di tutto questo. Potremmo chiederci, per esempio, se in una scuola vista come organizzazione che apprende gli alunni sono più felici. Esiste la possibilità di verificarlo? E ancora: il dirigente e gli insegnanti si sentono valorizzati? Direi di sì. Ma, allora, l’innovazione si fa per i grandi o per i piccoli? Per chi si fa? Chi è in grado di elaborarne più adeguatamente i significati?

Qual è il punto di vista maggiormente significativo?

Il problema è di capire quante persone possono essere coinvolte nei processi di “learning” dell’organizzazione scolastica – intendendo il “learning” non come imparare una cosa piuttosto che l’altra, ma come vivere una situazione di crescita continua, di espansione, di arricchimento culturale, di comunicazione con la ricerca. È in gioco, per gli insegnanti, il miglioramento della propria immagine professionale, il sentirsi veramente grandi e capaci di far cose da grandi in un mestiere, come quello del docente, che ti chiede spesso di far cose da piccoli.

Non c’è dubbio che nell’idea di strutturare la scuola come organizzazione che apprende è presente un grande investimento di qualità e sono incluse rilevanti occasioni di sviluppo. Gli alunni sono in grado di avvertirlo? Quali vantaggi ne traggono? Chi vive in scuole così concepite e chi non ci vive ne ha e ne esprime una percezione effettivamente diversa?

Qualche verifica è stata fatta, e mi pare che valga la pena ragionarci su. Prendiamo per esempio le famiglie e i genitori. È noto che una delle critiche che vengono rivolte al mondo scolastico – forse la più devastante – si riferisce alla sua autoreferenzialità e al fatto che il corpo degli insegnanti non realizza una valida comunicazione con i suoi interlocutori naturali. I processi d’innovazione dovrebbero quindi aumentare questa capacità d’interazione ambientale della scuola: se invece corroborassero la percezione di una scuola ancora una volta autorefenziale non farebbero che contribuire a quel discredito nei confronti degli operatori scolastici di cui si hanno segni sempre più frequenti.

Un altro esempio. In questo momento serpeggia, e neanche tanto nascosta, una certa insofferenza per molte delle “innovazioni” degli ultimi decenni: torniamo al conosciuto, alle cose semplici, alle indicazioni chiare, non c’è bisogno alcuno di complicarci la vita e confonderci le idee con le ubbìe (per quanto promettenti) della “learning organization”: andiamo a scuola tutte le mattine, rispettiamo gli orari e svolgiamo i programmi, e questo sia tutto.

Qual è dunque il vantaggio reale e duraturo di tutto quanto si è cercato di fare? Ci siamo forse agitati per niente?

Il problema va analizzato con cura perché le risposte rappresentano un elemento importante per giustificare l’impegno. Può darsi che sia vero che l’Italia non sa bene che cosa vuole dalla scuola, ma è certo che non vuole esserne disturbata. È quindi chiaro che chiunque introduce processi innovativi non può aspettarsi di avere la vita semplice. Va detto chiaramente, a questo punto, che in ogni cambiamento è presente il rischio di aumentare la percezione di autoreferenzialità, invece che ridurla. Operazioni di questo genere, per esempio, spesso sono apprezzate da una fascia ristretta di genitori (manager, direttori d’azienda, direttori di banca, altri docenti) che ne condividono il linguaggio, ma che sono poi i medesimi che dalla scuola si aspettano risultati assai poco innovativi.

In sintesi, il nostro agire deve tener conto di questo intreccio di esigenze, pregiudizi, aspettative nei confronti della scuola e capacità reali – come vedremo fra poco – degli operatori scolastici di mettere a effetto certe strategie.

Il trapianto delle metodologie innovative importate dal mondo del management va effettuato a ragion veduta, avendo presente la necessità di evitare due pericoli: quello di una mera operazione di cosmesi e quello dell’isolamento culturale.

È possibile tale confronto, e con quali modalità? Osserviamo che si tratta di mondi che spesso, anche se non sempre, parlano linguaggi diversi, anche se le parole sono le stesse. Parole come “valore”, “risorsa”, “efficienza” ed “efficacia” fanno ormai parte del lessico scolastico, ma sono parole d’importazione e per questo assumono una duplice valenza, secondo che si faccia riferimento a un contesto educativo-pedagogico-scolastico oppure a un contesto produttivo-manageriale.

Questi due mondi differiscono anche per le velocità di marcia: la scuola è più lenta dell’economia. Che cosa succede se la scuola si fa “tirare” dall’economia: impara ad andare forte oppure si rompe? C’è chi dice che impara ad andar forte e c’è chi afferma il contrario. Di fatto, la scuola ha una fisionomia naturale di tipo lento, per cui la sua velocità non potrà mai essere quella dell’economia. Il problema è allora trovare un raccordo di compatibilità.

Il pedagogista incallito direbbe: perché l’economia non rallenta per stare al passo della scuola? Questo è di fatto impossibile, per cui rimane soltanto l’altra soluzione: la scuola deve prendere la rincorsa. Invece, la soluzione giusta penso che consista nel fatto che ciascuna istituzione rispetti i suoi gradienti connaturati di velocità, magari con qualche adattamento. Occorre però creare ponti e intese, altrimenti le passerelle, come succede quando i sistemi di raccordo durano poco, cadono. L’altra soluzione, che io non accetto ma che alcuni sostengono, è che la scuola debba rimanere quella che è sempre stata, immobile e perenne.

L’innovazione è lo strumento di questo raccordo che avrà successo se si sarà trovata la giusta “velocità” d’innesto fra i due mondi: fuori di metafora, se giusta sarà stata la programmazione dei tempi del cambiamento, se si saranno fatti rilievi corretti sullo stato dell’arte delle nuove tecnologie informative e sulla loro effettiva praticabilità, se si saranno fatte analisi plausibili sullo sviluppo socioculturale del territorio ecc. Altrimenti, non resta che registrare il dominio di un mondo sull’altro, oppure la loro irriducibile estraneità.

La diversa velocità di evoluzione di questi due mondi dipende fondamentalmente da una diversa percezione del tempo. È noto che una delle idee-guida della pedagogia moderna è il famoso principio di Rousseau secondo il quale la cosa migliore da fare per guadagnare tempo in educazione è perderlo: bisogna saper aspettare, si devono rispettare le cadenze naturali dello sviluppo. Il tempo dell’educazione e dell’apprendimento, infatti, non è il tempo dell’accelerazione, della forzatura, della stimolazione fine a se stessa ma, piuttosto, quello della proposta, dell’accompagnamento, della riflessione e della maturazione interiore. La vita formativa non guadagna tanto dal rumore e dal sovraffollamento materiale quanto dal silenzio e dalla sobrietà essenziale dell’offerta; la sua legge non è il consumo ma l’assimilazione. Nell’ambito manageriale, come è noto, vale il principio opposto: la volontà di appropriarsi del tempo, di contrarlo – se fosse possibile – ai limiti del paradosso einsteiniano dei due gemelli sfiora talvolta il delirio di potenza.

Bisogna quindi vedere se, alla svolta del millennio e all’ingresso nella “postmodernità”, la metamorfosi della scuola in organizzazione che apprende richiede una completa riconversione dei linguaggi pedagogici finora adottati oppure soltanto una loro trascrizione con nuovi mezzi (multimediali?) in lessici e grammatiche adeguati alla nuova realtà ma inclusivi della tradizione pedagogica della quale non sono che la continuazione.

È certo, comunque, che da un reciproco rigetto non può che venirne del male.

Domande sull’azione didattica

Esiste veramente, oggi, un ‘nuovo modo’ di intendere l’azione docente come tratto unitario e rappresentativo della cultura attuale ?

Non mi pare che sia possibile una risposta diretta in tal senso. Mi pare, piuttosto, che stiano crescendo in maniera esponenziale le visioni connesse alle varie e specifiche concezioni del mondo e della vita o alle diverse espressioni derivanti dagli sviluppi delle scienze umane o alle differenti condizioni di esistenza. E qui il repertorio è presso che infinito: l’insegnante come prolungamento famigliare oppure come sostituto della famiglia stessa (l’insegnante ‘genitore sociale’), rigoroso trasmettitore-giudice del sapere consolidato oppure affettuoso accompagnatore nell’ itinerario dell’apprendimento naturale, diligente esecutore dei mandati ufficiali oppure professionista riflessivo con rilevanti gradi di autonomia, competente ed abile conoscitore di tecniche di comunicazione oppure ‘guida’ dialogica e suggestiva di cammini di crescita, testimone di giustizia ed operatore di uguaglianza oppure neutro erogatore di informazioni, conoscenze ed abilità… e si potrebbe andare avanti per un bel pezzo.

In realtà, penso che la costruzione culturale dell’azione docente risponda non tanto ad elementi criticamente mediati ma si connetta in termini molto più natura- listici allo strato profondo dei desideri, bisogni, timori, sogni, immagini e fantasmi che popolano la nostra vita. Il genitore in difficoltà spera in un caritatevole aiuto sostitutivo, l’ambizioso aggressivo pretende un duro tirocinio che prepari al successo competitivo, il socialmente modesto investe in un’istruzione seria che consenta al figlio di uscire dai suoi limiti, l’appagato fiducioso si prefigura un’esperienza serena e tranquillizzante, e così via.

Non è difficile vedere che, dal più al meno, è sempre stato così. La differenza sta nel fatto che tutte queste visioni si trovano presenti simultaneamente in ogni gruppo classe e non vengono invece a collocarsi – se non in pochi casi – in conte- nitori diversi e separati. Per questo, ogni scuola costituisce sempre un ritratto su scala del mondo e della vita e non (a meno che non lo si voglia fare intenzionalmente) una sua deformazione unilaterale.

Probabilmente, allora, lo strato ultimo cui attingere è costituito dall’attesa di un’azione polivalente e multidimensionale, in grado di rendersi significativa, svolta in maniera criticamente filtrata ed in nome di una progettualità consapevole ed origi- nale, di fronte alla pluralità delle esigenze che la circondano.

L’azione didattica non è ‘a servizio di’ ma è un ‘servizio per’. Ricordate quel bellissimo film ‘Il pranzo di Babette’, in cui l’umile serva si rivela la splendida padrona dell’invito ?: è una metafora che fa al caso nostro.

Questo, tra l’altro, è ciò che rende bello fare didattica; ovviamente, anche molto difficile. Come sempre per tutte le attività di mediazione.

Il termine ‘mediazione’, in genere, è andato perdendo peso a favore di altre terminazioni – affermazione, identità, opposizione, conflitto, polarità – che sono venute baldanzosamente alla ribalta della scena ideologica, politica e sociale (senza, per questo, migliorare di molto – a mio avviso - la nostra qualità di vita e di pensiero). E’ molto positivo, quindi, che, almeno per quanto riguarda l’azione docente, se ne sia mantenuto in vista il profilo.

Naturalmente, è pur sempre necessario saper distinguere fra una accezione ‘bassa’ (mediazione come opportunismo, rinuncia precostituita, abbandono dei principi, ecc.) ed una ‘alta’ dell’idea (mediazione come costruzione comune, dialogo aperto e leale, superamento effettivo dell’opposizione). Il non valore implicito nel primo versante è l’indifferenza; il valore racchiuso nel secondo è la pace.  Ora, le pacificazioni che l’insegnare trova incluse nel suo porsi e darsi immediato di attività interumana sono costituite, appunto, da ‘mediazioni’ che hanno per oggetto l’individualità e la socialità, l’insegnare e l’apprendere, il rispettare ed il far crescere, l’accettare ed il trasformare, l’affermarsi e lo stare insieme, il ripetere e l’inventare, l’ordine e la novità.

Di fatto, all’idea dell’insegnamento come attività imperniata sulla sintesi se ne è andata alternando una incentrata sull’analisi (disciplinarità, performatività, standardizzazione) ed è sempre stato difficile trovare una loro composizione armo- nica in una visione integrativa di entrambe. La prima e fondamentale mediazione, quindi, consiste proprio nel collegare analisi e sintesi in un circuito continuo di costruzione reciproca di passi di apprendimento e di processi di maturazione.

Chi non media crede di semplificarsi il compito ignorandone la complessità: sbaglia.

La riflessione pedagogica afferma in modo continuo la centralità del discente. Sul piano operativo il principio va calato nell’organizzazione scolastica e nell’attività didattica: quali sono gli strumenti culturali di cui può dotarsi l’insegnante per coniu- gare l’attenzione al singolo studente con l’attenzione al gruppo-classe?

Si tratta di uno dei problemi perenni dell’interpretazione professionale dell’ insegnamento - almeno nei sistemi, come il nostro, dove il gruppo-classe ha una con- figurazione precisa e rappresenta la cellula costitutiva dell’organismo didattico-formativo. La chiave di volta della questione è costituita dal principio per cui l’ universalismo dell’azione dell’insegnante non si declina in termini di massificazione (uniformità, indifferenziazione, omologazione) ma di personalizzazione, nella quale gli elementi di individualizzazione (attenzione al singolo, ai suoi tempi e modi di sviluppo e di apprendimento, spazio alle sue esigenze di espressione, offerta di momenti di affermazione, vicinanza non stereotipata ai suoi problemi) e di socializzazione (senso dell’aiuto e della collaborazione, confronto leale e costruttivo sui risultati, maturazione di capacità di dialogo e comprensione, condivisione di impegni, sentimento di un’atmosfera comune di vita) si raccolgono in un respiro unitario di significati possibili e praticabili.

La classe non è un agglomerato amministrativo di nomi ma un luogo dell’ esperienza ed una casa dei ricordi; ma è anche un oggetto che la pedagogia, la didattica e la psicologia hanno studiato e sul quale si dispone di conoscenze (dall’ autogoverno al cooperative learning, dal lavoro per gruppi al peer teaching) di non difficile accesso. Soprattutto, però, la classe è una comunità di alunni e insegnanti (qualcuno ci mette anche i genitori) e non un semplice gruppo di alunni. In altri termini, vuol dire che gli adulti, con i loro criteri ed i loro stili, vi esercitano un ruolo tutt’altro che indifferente, del quale non si rendono sempre conto. Meglio tornare a pensarci.

Resta da dire ancora qualcosa di più direttamente riferibile agli insegnanti.

Mi è capitato di sentir dire di recente che la riduzione dell’accento sulla collegialità ha finalmente ridato al singolo insegnante la sua libertà individuale di azione e di decisione liberandolo dall’oppressione dei colleghi.

Si tratta di una triste (ed anche un po’ irresponsabile) sciocchezza pedagogica. Una seria lettura etico-professionale mostra con chiara evidenza che: a) – il carattere di socialità è intrinseco in ogni professione elevata nel senso di co-costruzione storica comune della/e qualità volute, mediante processi di ricerca, trasmissione, generalizzazione, induzione e selezione delle procedure ammissibili: il diritto alla pura e semplice espressività individuale non è un tratto professionalmente istituibile; b) – la comunità degli adulti responsabili è la condizione fondamentale per la costruzione di un ambiente educativo e didattico efficace: non credo che sia possibile ritrarsi da queste consapevolezze.

Non solo la collegialità professionale va mantenuta e difesa, ma va potenziata ancora di più, così come va detto con grande fermezza che l’azione didattica è inseparabile dalla riflessione. Se negli anni passati la dimensione riflessiva è stata valorizzata attraverso una forte sottolineatura dell’organizzazione dell’insegnamento del docente, attualmente sta crescendo l’ attenzione all’analisi del lavoro da parte dell’insegnante stesso.

Come si può operare per accrescere la competenza auto-valutativa del docente?

Siamo di fronte ad una dinamica nella quale l’accrescersi delle minacce di verifiche dall’esterno ha prodotto una certa spinta a mettere in atto procedure di autovalutazione dall’interno stesso delle scuole. Una certa componente di reazione autodifensiva non va trascurata ma, in ogni caso, sono anche presenti dimensioni di natura positiva, sulle quali vale la pena di insistere.

La tendenza può venire sostenuta in vari modi: - ridurre le componenti meccaniche e burocratiche del lavoro; - diffondere le pratiche di valutazione professionale orizzontale: il ‘collega critico’, la peer review, l’osservazione parteci- pata, i focus group, ecc.; - utilizzare le autovalutazioni come elemento costitutivo per la costruzione dei rapporti valutativi ufficiali; - trovare nell’organizzazione della vita di scuola tempi e modi che favoriscano i momenti di autovalutazione riflessiva.

L’autovalutazione sistematica va intesa come un linguaggio professionale obbligatorio e va utilizzata come un dato costitutivo dei processi di valutazione di sistema.

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Non è certo difficile rintracciare tutti questi punti nel quadro della visione originale, fondativa e funzionale della Rinnovata, quasi che la pedagogia della scuola e la costruzione della didattica come insieme di linguaggi di comunicazione educativa - linee saldamente presenti all’intelligenza della Pizzigoni – vi trovassero un concretizzazione  idealtipica esemplare.

Per questo, la Rinnovata resta un ‘libro’ aperto che parla della scuola attraverso il suo stesso esserci ed operare. Purchè non se ne perdano i segni.

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